In "Autumn Moon" la talentuosa Clara Law, con inquadrature come acquerelli dolcemente deformi, con immagini rinfrescate dai rumori di fondo, con dialoghi pregnanti, con un ritmo piano capace di far vibrare i malesseri senza legge della modernità, racconta di Tokio, giovane giapponese triste: che predilige pescare e riprendere la gente con la cinepresa. Instancabile nell'atto d'amare, ma spesso solo, silenzioso, tormentato. E di Wai, senza la famiglia emigrata in Canada, che presentandosi dice: "Sono al mondo da 15 anni e solo adesso scopro che estate e inverno non si seguono immediatamente: c'è di mezzo l'autunno". E di una città: come i personaggi, in attesa di qualcosa che forse non arriverà nella forma attesa.
Hong Kong, che nel 1997, quando lo scadere del protettorato britannico l'ha lasciata isola nuda in mezzo al mare, tornando alla Cina, che da tempo la appetisce, desidera la sua ricchezza, il suo essere di frontiera.
La Law si interroga toccando un disagio ormai universale: mentre la nostra cultura sparisce chi si ricorderà di noi? Saremo dei moderni nomadi che vagano senza legami, senza ricordi, senza sogni?
Questa domanda la rende cinema con un'illuminazione finale splendida: Tokio e Wai accendono un "fuoco" di promesse, il fumo si solleva da terra, mentre la cinepresa, dall'alto, inquadra Hong Kong punteggiata di grattacieli e linguaggi.
E' un incrocio di memorie più che di sogni. Così, con un ricordo si può anche fare l'amore, anche se la finzione non può durare a lungo, anche se il corpo amato non è che un rifugio aggrinzito, investito casualmente di desiderio, ma anche di richieste.
Tornare alle radici è ormai impossibile, ma si può sempre scoprire l'autunno, fra l'estate e l'inverno, in una festa che, per un solo attimo, nel plenilunio, fa approdare e ripartire le navi degli antenati. |