Cinema sul cinema, povertà di mezzi. In questo Specchio, Panahi racconta di una bambina la cui madre non è arrivata in orario a prenderla a scuola. La piccola decide di attraversare una parte di Teheran per andare a casa da sola, ma improvvisamente la narrazione documentaristica dei suoi movimenti e delle sue azioni improvvisamente si spezza per lasciar spazio ad un'altra realtà.
Rivolta alla macchina da presa, Mina dichiara scocciata: "Non voglio più recitare in questo film, voglio tornare a casa!".
Lo stesso Panahi entra in campo per cercare di convincerla a continuare: niente da fare. La piccola, irremovibile, abbandona la troupe, senza nemmeno togliersi il microfono che porta addosso.
Il regista comincia allora a pedinarla nel traffico febbrile, continuando a registrare il sonoro, e portando così a termine il film che aveva immaginato di girare.
La bambina continua a comportarsi come nella prima parte del film, perciò non smette di "recitare", anche quando si direbbe faccia il contrario.
La macchina da presa, a sua volta, continua a rubare l'immagine della piccola, costretta dapprima a seguire le indicazioni del regista e a recitare pertanto battute non sue, in seguito, dopo la sua ribellione, spiata nella fuga spontanea, perde la propria intimità privata per diventare testimone di spaccati di vita più vasti e complessi.
La pellicola disegna con efficacia i modi di fare cinema che confondono realtà e finzione, seguendo la strada di maestri come Kiarostami e Makhmalbaf. Come in uno specchio, la prima e la seconda parte del film si riflettono uguali e opposte. Se lo scopo della ragazzina rimane lo stesso in entrambe le situazioni (quello di trovare la via di casa), il punto di vista dello spettatore e la narrazione cinematografica mutano radicalmente: da una parte assistiamo alla storia di Mina all'"interno" del film, nella quale la presenza del regista è nascosta tra le righe della storia; dall'altra, grazie al colpo di scena che ci porta sul set del film, la stessa ricerca è narrata attraverso la tecnica della "candid camera", nella quale la piccola bambina non sa di essere filmata. Cambia anche la prospettiva dello spettatore: “svelando” il mezzo cinematografico, Panahi dà al pubblico una maggiore sensazione di realismo, essendo venuto meno un filtro tra il reale e la sua rappresentazione.
L'infanzia diventa in tal modo un volano per la riflessione, un mezzo per capire che la realtà non è poi diversa dal cinema, ma anche che il cinema non può controllare la realtà e ha dei limiti che non può superare.
Al centro del film c'è, comunque, una bambina e quello che le succede. Sia nella parte "funzionale" del racconto che in quella "documentaria" ci troviamo di fronte a un grido di dolore. Mina è, innanzi tutto, sola e sperduta in mezzo alla città. Gli adulti non sono in grado di aiutarla, ma prima ancora non sono capaci di ascoltarla.
La "ribellione" del personaggio dai vincoli della finzione, indicano un desiderio di rivalsa della piccola che, in particolare nella società iraniana, rimanda a una voglia di libertà che coinvolge proprio i gruppi sociali che Mina rappresenta: i bambini e le donne.
Il titolo del film si erge come metafora diretta: il cinema è specchio della vita, nelle sue manifestazioni quotidiane. Una favola umana che diventa specchio della società iraniana, raccontata con lo stile poetico di chi fa dello sguardo un'arte di equilibrismo esistenziale.
Vincitore del Pardo d'oro a Locarno nel 1997. |