|
|
Quattro episodi che raccontano le vicende di coloro che amano e vivono il calcio, ma un calcio minore, quello degli esclusi, i molti che per tante ragioni si sono persi per strada, cioè la maggior parte, le grandi promesse che rimangono tali, i procuratori frustrati, quelli che pensano sempre di avere scoperto il nuovo Maradona, gli allenatori delusi o i giocatori costretti a fare le riserve, un mondo che non ha sfondato ma che vive ugualmente questo grande sogno che è il pallone. |
|
|
|
Sacro e profano: l’atteggiamento. Sbagliato.
Alla ricerca della pietra filosofale, l’operazione condotta (nelle vesti di presentatore- sponsor) da Paolo Virzì termina con l’ennesimo, immutato carico di piombo.
Come i migliori film tratti dai vangeli sono quelli di registi laici, così per l’altra grande fede (italiana) la speranza di trasformarsi in cinema svanisce puntualmente nelle mani di chi riduce l’opera a fredda rappresentazione della realtà o, peggio, dei luoghi comuni e delle chiacchiere da bar che consistono già in un primo, distorto grado di rappresentazione.
Al primo sguardo 4-4-2 sembrerebbe un’opera a otto mani, un miscuglio di idee dal quale potrebbe, se non dovrebbe, scaturire quella giusta: niente di tutto ciò, il risultato finale è un collage di storie slegate il cui unico filo conduttore, il calcio nelle sue espressioni ‘minori’, lontano dall’attenzione dei media, non è sufficiente a dare omogeneità al film.
In quella che alla fine rimane un’accozzaglia di storie, quello che manca è proprio una storia, qualcosa per cui il pubblico (quello in sala) possa appassionarsi; per quello allo stadio ormai c’è poco da fare, il gioco ‘più bello del mondo’ ha perso la sua natura primaria, quella per l’appunto di gioco, di divertimento, di svago. A credere profondamente, superando il falso simulacro del tifo, sono i protagonisti, quelli che lo vivono, lo sognano, lo amano.
L’intenzione di partenza non era sbagliata, le storie riguardano proprio loro, Antimo, Francesca, Oumar, Yuri (bravo Valerio Mastandrea, l’unico che sembra avere un’idea di calcio ancora legata al sentimento). Ma le componenti fondamentali vengono meno, c’è l’aspettativa ma non il sogno, e mancano completamente passione e amore. Ci vorrebbe poco, un ragazzo che si allaccia gli scarpini su un campo con più sassi che terra, il lampo negli occhi per un gol segnato da un compagno, la soddisfazione per il compimento di uno sforzo mentale prima che fisico.
Niente di tutto questo: dalla pellicola trasuda l’inanimato ritratto di una vita logorante, uno specchio della realtà che va oltre l’immagine del reale e la distorce. Il gioco è una proiezione della mente, non è mero evento dell’esistenza terrena. Che il cinema lo comprenda, prima di provare a rappresentarlo. |