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Recensione: Il cane giallo della Mongolia

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Il cane giallo della Mongolia
titolo originale Die Höhle des gelben Hundes
nazione Mongolia / Germania
anno 2005
regia Byambasuren Davaa
genere Drammatico
durata 93 min.
distribuzione Bim Distribuzione
cast B. Batchuluun (Figlio) • N. Batchuluun (Figlia maggiore) • N. Batchuluun (Figlia minore) • B. Daramdadi (Madre) • B. Urjindorj (Padre)
sceneggiatura B. Davaa
musiche Börte
fotografia D. Schönauer
montaggio S. Weber
uscita nelle sale 28 Aprile 2006
media voti redazione
Il cane giallo della Mongolia Trama del film
Uno spaccato della vita di una famiglia nomade che vive in una remota regione della Mongolia. Il film trae spunto da un episodio che ha come protagonista Nansal, un bambina che trova un cucciolo di cane cui dà il nome di Zocher e che la sua famiglia inizialmente rifiuta. Quando il piccolo cane salva la vita del fratello minore di Nansal, il padre e la madre della bambina accettano di buon cuore il valoroso cagnolino.
Recensione “Il cane giallo della Mongolia”
a cura di Andrea Olivieri  (voto: 6)
"Identità nomade."

Evocazione e simbolo. Il cane e il corpo: geometrico e minerale, mistico e terrestre, il più possibile semplice e vero e il più possibile astratto. Luoghi ai margini della civilizzazione, oasi di vita sconosciuta e intensa. In questo scenario immutabile si muovono ancora famiglie nomadi dedite alla pastorizia e alla cura del bestiame in totale coesione con la natura.
Esiste un territorio che viene prima della storia, del racconto e coincide con la definizione di un'identità e la connotazione di uno spazio. Non qualcosa di evanescente o stereotipato, piuttosto una proposizione di un modo di vivere, di pensare. La forma umana. Lo 'stato delle cose': per cercare di cogliere, attraverso sguardi non arresi, da qualunque parte del mondo essi provengano, gli istanti e le tensioni della quotidiana lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza, per il suo diritto a custodire un posto sulla terra.
Purtroppo però l’intento ad indagare soprattutto la deriva morale della modernità, mostrando l'arte 'separata', solitaria, persino scontrosa, delle traiettorie visive che si fermano e ripartono - rimettendo in moto assieme ai loro meccanismi lo scorrere degli eventi - viene sostituito presto da un'altra 'immagine' (estetizzante), traccia di un movimento angosciante, poiché non sublima il desiderio. Questa 'Estetica' innalza sicuramente il non finito, l'imperfetto; a 'regola' estetica, ha messo ordine nel caos della 'presa di coscienza', ma il 'legno' delle sculture (teorema) del percepire, diventa allora la materia dell'esposizione, ruvida, grezza, povera, di una pellicola a metà esatta tra documentario e finzione. Questa realtà dimora sullo schermo, si fa percepire e con essa perdono d’essenza i 'motivi', i sentimenti, le idee. I corpi fisici e le persone appaiono come 'particolari di base', concetti primitivi. Gli eventi mentali, di 'rappresentazioni' vengono eliminati. I pensieri, assumono di conseguenza il 'torto' di essere entità private e non 'pubbliche'. La 'purezza' di un cinema del sentimento, è perciò la falsa coscienza affrontata con l'ingenuità di non credere ad un cinema che deve tornare a interessarsi della vita, dei destini degli individui, delle contraddizioni e di tutto ciò che può far pensare ad un cambiamento.
Situazioni di viaggio, di passaggio: non sono bastati dei nobili propositi per convincere, ma il cinema di Davaa si aggira tra dimensione quotidiana e mito semplice con plausibile onestà di toni.
Commenti del pubblico







Ultimi commenti e voti
Utente di Base (2 Commenti, 100% gradimento) AngelaD75 20 Novembre 2011 ore 16:26
1
voto al film:   9

Uno spaccato della vita di una famiglia nomade in Mongolia che vive a stretto contatto con la natura e i suoi ritmi dove la praticità sembra inizialmente vincere sui sentimentalismi ma dove, infine, prevale l'amore e la gratitudine per gli animali.
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