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Un regista, Franco Elica, entra in crisi perché la figlia ha sposato un fervente cattolico e perché è costretto suo malgrado a girare l’ennesima versione dei “I Promessi Sposi”. Alla crisi si aggiunge un evento inaspettato, così decide di fuggire in un paesino della Sicilia profonda, dove incontra un uomo che si guadagna da vivere girando filmini di matrimoni e un regista che si spaccia per morto per ottenere finalmente il riconoscimento mai avuto prima “in vita”. Conosce anche il principe Ferdinando Gravina di Palagonia, un nobile spiantato che gli propone di dirigere il film del matrimonio di sua figlia, Bona. Franco si innamora immediatamente della bellissima principessa e decide di salvarla da un matrimonio di convenienza. |
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In un momento di crisi, privata per il matrimonio della figlia e professionale, costretto a lavorare ad un film inutile, Franco Elica si scopre inseguito dalla propria identità: in un altro mondo, una Sicilia profonda e apparentemente avulsa dallo scorrere del tempo, non riesce a perdere il contatto con la realtà.
Trascinato da tutto ciò che gli ruota attorno, il regista in crisi si inventa protagonista della propria storia, alternando i lunghi momenti di straniamento attraverso i quali si lascia compenetrare dalla realtà a scatti di vita, come non fosse rassegnato ad una morte che gli viene presentata come liberatrice. Nei momenti in cui Franco agisce, la realtà diventa film: da interprete passivo d’un copione che lo tedia quanto il film che rifugge ad eroe d’un disegno più grande della propria vita - la speranza, l’immaginazione.
In treno, all’inizio e alla fine, troviamo due persone diverse: il primo Franco Elica ha vissuto, ed è stanco; il secondo si è inventato un istante di vita, lo ha cercato, lo ha girato, forse lo ha solo sognato, ed è felice.
Ha trovato un finale perfetto, salvando dal proprio funerale la principessa, il protagonista ed anche il regista. Lo sdoppiamento che lo ha fatto interprete di se stesso può finire qui, è salvo - sono salvi.
L’intrecciarsi dei livelli della narrazione, con le sempre più frequenti inquadrature in bianco e nero di un occhio indefinitamente collocato tra quelli di narratore, regista e spettatore, culmina in un finale aperto ma libero dal senso di oppressione fino a quel momento dominante.
Con delicatezza opposta a L’ora di religione, Sergio Castellitto mantiene a lungo il proprio personaggio in bilico tra riflessività e assoluta mancanza di vitalità, per liberare la propria energia a folate; Bellocchio sceglie di raccontare, con qualche virtuosismo come l’immagine dei due cani nel convento, una storia che parla di disincanto nel confronti della vita e del cinema, ma anche del ritorno di questa passione. Che i morti comandino pure. |
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Commenti del pubblico |
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