"Le miserie dell’uomo sono la sua forza."
La passione per la vita, tutta la vita, da parte dell’angelo, non tanto attraverso la bellezza del vivere (l’amore, la felicità) quanto attraverso una sorta di 'elegia del dolore', l’appassionarsi a quel qualcosa che dà la forza, a volte, agli umani, di continuare a vivere, nonostante tutto. La verità è che si ha paura di ciò che non si conosce; quella donna bella e piena di vita e quell’omino disperato e taciturno sono la stessa persona: lui deve solo rendersene conto.
Intimo, seducente e straordinariamente lucido: ecco manifestarsi nella cornice una figura di regista che da una posizione esterna al mondo, sceglie di incarnarsi in un corpo, scendere sulla terra per osservare da vicino, raccogliere tracce 'assolute' e rielaborarle attraverso l’immaginazione narrativa. Una miscela svincolata dagli obblighi dell’intreccio e fatta più di evidenze che di dimostrazioni. Tutta la sua capacità di raccontare sfumando i contorni, ritagliando le figure, elaborando l'immaginario con lucida tensione ideale e inquadrando di conseguenza la molteplicità degli accessi possibili alla storia, nel momento in cui viene consegnato ad un altro sguardo, quello dello spettatore.
L'Angel-a di Besson riesce a darci un’idea del senso della vita proprio mentre ne disegna in vari modi la sua assoluta assurdità. Proprio mentre ne evidenzia l’insensatezza, la casualità, l’indeterminatezza. In un rovesciamento romantico del senso della storia e dei sensi (mortali), "Angel-A" si aggrappa all’unico elemento che ci caratterizza come umani, per dare un senso di umanizzazione ad una storia ormai sempre più 'disumanizzata'. Ed è proprio il binomio amore/morte, condito con gli elementi che scuotono i corpi più di un esplosione nucleare, a caratterizzare l’esistenza come un bisogno insopprimibile: viviamo perché siamo esseri desideranti. |