Ci troviamo di fronte allo sguardo disarmato e disarmante di un altro bambino iraniano, fratello d'occhi e gesti dei compagni di strada che popolano i film di Kiarostami.
Per certi atteggiamenti, Amir sembra aver ripreso l'immaginario cinematografico dei bambini sfruttati e abbandonati a se stessi, di cui si è occupato Rossellini fin dai tempi di "Sciuscià".
Non a caso i riferimenti alle opere di Rossellini sembrano essere evidenti nella fisicità delle immagini.
Ed è proprio la corsa di Amir, irrequieto e sempre in movimento, a dare un originale ritmo spazio-temporale all'intera narrazione della pellicola: gambe che corrono, piedi che accelerano, polvere che si alza mentre la strada avanza.
Amir vorrebbe andarsene dal porto di Abadar, sogna di potersi imbarcare su una delle tante petroliere che attraversano il Golfo, le stesse verso cui ogni giorno urla la sua disperazione dalla scogliera che ne riporta l'eco; immagina di volare in alto, correndo più del vento.
Le poche volte che la macchina da presa inquadra Amir da fermo, in primo piano, è solo per congelarne lo sguardo muto ed indagatore, svelando così i retroscena di una guerra che resta sempre invisibile, sommersa...
Altrimenti sono campi lunghi ad abbracciare la vastità della spiaggia, la desolazione del paesaggio, la solitudine del bambino.
Certi occhi tornano con insistenza e ci vengono proposti sempre in nuove vesti, ma è comunque lo stesso sguardo, quello dei bambini iraniani a bucare lo schermo; sguardi capaci di cogliere l'attenzione dello spettatore, occhi che meritano di essere ascoltati.
I bambini che osservano la “distruzione”, sanno cogliere la bellezza della natura fuggita ai ritagli e alle inquadrature, interrogano il mondo degli adulti con insistenti domande alla ricerca di tutte le possibili risposte.
Sono i “grandi” però, la cui presenza è spesso rivelata da voci sempre più fuori campo, a non meritare la loro innocenza. |