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Taipei, anni Novanta. La ragazza May lavora per un'agenzia immobiliare; il giovane Hsiao-kang vende urne cinerarie; il terzo, Ah-jung, smercia vestiti femminli. Hsiao "occupa" un appartamento vuoto fra quelli trattati da May, e cerca di suicidarsi. Qui la ragazza porta per una notte Ah-jung, poi i due maschi si dividono l'abitazione, con Ah-jung che è attratto dal compagno. |
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"Vive l’amour" è un racconto d’amore marginale, tenero e silenzioso, sofferto. Essenziale, silente, il regista di Taiwan, alla sua seconda opera, sa perfettamente dove posizionare la macchina da presa; fissa, perfetta in ogni inquadratura, dotata di una fotografia eccellente e fine al realismo narrativo della pellicola. Dopo le prime due sequenze, una che ha la chiave dell’appartamento in primissimo piano e tutto il resto fuori fuoco, e la seconda che riprende il giovane venditore di colombari riflesso nello specchio di un negozio sul quale per un attimo si avvicina con lo zoom, il talentuoso regista abbandona ogni altra forma di presenza della regia per lasciare che siano gli attori, la storia, ma soprattutto i silenzi (incapacità comunicativa), a raccontare di questo drammatico inno all’amore, fino all’ultima, lunga sequenza del pianto della brava Yang Kue-mei.
Una storia che si compone di soli tre personaggi, indissolubilmente legati dai loro corpi (Ah-Rong vive il corpo di lei con quella, Hsiao-Kang lo vive su se stesso).
Amore marginale di vite ai margini della metropoli, appartamenti fatiscenti o lussuosamente spogli, diversi modi di concepire la modernità. Un film che fa del realismo (intellettuale) la sua forza narrativa, capace di associare amore e morte, sesso e suicidio, con un filo sottilissimo di spietata ironia.
Coraggioso ed intenso come lo sguardo di Hsiao-Kang, prima di un sofferto bacio omosessuale, "Vive l'amour" si presta bene ad essere guardato e riguardato in "loop", come sfondo maledetto di una realtà che nessuno ha voglia di razionalizzare, e che è quella della dissoluzione dei rapporti umani allo stato puro, senza interferenze di trama e fronzoli stilistici, in un montaggio di piani sequenza che senza accorgercene potrebbe benissimo essere quello operato dalla nostra mente tutti i giorni, vivendo esistenze esauste, false, trascinate e svuotate di senso, con la maggior parte del tempo trascorsa a far cose che ci negano.
Leone d'Oro (ex aequo con "Prima della Pioggia" di Milcho Manchevski) alla Mostra del Cinema di Venezia (1994). |