Un paio d’anni fa, in occasione dell’uscita di “Centochiodi”, Ermanno Olmi lo ha definito il suo ultimo film; “come Tolstoj a un certo punto si deve dire basta”, e come Tolstoj avrebbe fatto meglio a fermarsi alla penultima. Olmi però non ripone la macchina da presa, chiude semplicemente con i film a soggetto e ritorna alla sua prima grande passione, il documentario.
Ricevuto da poco il Leone d’oro alla carriera, Olmi presenta “Terra madre” al Festival di Berlino; non è un film destinato a riempire le sale, ma all’interno di manifestazioni specifiche si nobilita (e le nobilita), destando interesse su quello che a Olmi maggiormente interessa, il contenuto della sua opera. Sintomatico il passaggio allo “Slow Food on Film”, festival incentrato sui problemi economici, sociali e ambientali connessi al settore agro-alimentare; il documentario di Olmi inizia proprio con il grande raduno mondiale tenutosi a Torino nel 2006, denominato per l’appunto “Terra madre”: oltre 7000 tra contadini e pescatori da ogni parte del mondo convergono a Torino per scambiarsi idee, tecniche, esperienze, soluzioni. Il discorso si allarga poi alla Banca Mondiale dei Semi inaugurata nel 2008 alle isole Svalbard, a un contadino veneto che per oltre quarant’anni ha vissuto all’interno della sua proprietà senza forme di energia né contatti con l’esterno, a una fattoria indiana dove da generazioni custodiscono i semi delle loro coltivazioni, per cambiare infine registro e lanciarsi in un’elegia della terra e dell’uomo che la rispetta e che se ne prende cura.
Olmi apre con una citazione da Virgilio e chiude con un’immersione anima e corpo nella natura; nel mezzo lancia qualche input, il più interessante dei quali è proprio il raduno biennale di Torino. Della forma si cura fino ad un certo punto, anche perché il materiale girato non è omogeneo (le riprese all’interno della Banca Mondiale dei Semi non sono della sua troupe) e si alternano addirittura formati diversi, il discorso manca di un uso ritmo interno e rimane un semplice collage. Ogni parte di questo discorso potrebbe essere un ottimo cortometraggio documentario a sé stante, e riscuotere interesse e approvazione; tutto insieme perde di godibilità, ma rimane intatta la portata sociale di un’opera in parte divulgativa, in parte di puro amore. |