Nel mettere in scena l’ennesima tappa del suo processo di americanizzazione, Wenders ci risparmia stavolta molti dei luoghi comuni nei quali era lecito attendersi che inciampasse: Non bussate alla mia porta segue il filo conduttore del viaggio di un uomo alla ricerca del buono che è finora mancato nella sua vita. Metafora ormai abusata perché di facile impatto visivo, prima ancora che umano, il tema del viaggio viene affrontato nel modo meno appariscente possibile: Howard è in fuga fin dalla prima inquadratura del film, senza un motivo che vada oltre ad un ormai affiorato disagio esistenziale; il trabocchetto degli incontri particolari scatta una sola volta ed il timore di un’ennesima Odissea si spegne insieme al viaggio, poco dopo. La molla che lo ha fatto scattare ha esaurito la sua spinta, Howard è arrivato alla conclusione della sua ricerca senza trovare risposte. Per sua fortuna, in luogo delle risposte, trova una domanda, e la domanda si chiama Earl. La scoperta di avere un figlio spinge Howard a rimettersi in moto, questa volta con uno scopo ben chiaro e la rassicurante sensazione di essere finalmente sulla strada per colmare il proprio vuoto.
La parte centrale del film si dispiega faticosamente tra l’inevitabile rifiuto del padre da parte di Earl e l’altrettanto consueta resa dei conti con la donna lasciata trent’anni prima. A movimentare la situazione, aiutandone la soluzione positiva, ci pensa Sky, sorellastra di Earl, cresciuta anche lei senza un padre, ma capace di ascoltarne le ragioni e di accettarlo come tale.
Al viaggio di Howard s’intrecciano, meno felicemente, altri due viaggi: quello della figlia, sostanzialmente inutile vista la casualità del loro incontro, e quello di Sutter, incaricato dai produttori del film che Spencer ha piantato a metà di riportarlo sul set. The film must go on: la conclusione è accettata tanto da Shepard (sceneggiatore, prima che attore) quanto da Wenders, ma sorprende scoprire che le considerazioni più profonde sulla vita e sul cinema siano messe in bocca a questo messo delle majors, che attraversa il film con la rilevanza d’una goccia in un diluvio, ritrovandosi a deformarlo col proprio punto di vista.
L’inaudita attribuzione proprio nel finale di profondità psicologica ad un personaggio marginale è sottolineata dall’inquadratura del paese visto col binocolo di Sutter: solo ad Howard era stato concesso di fondere il proprio sguardo con quello dello spettatore, provocando la più rapida delle immedesimazioni.
La gestione ambigua del finale, con l’esplosione del conflitto padre-figlio e l’intervento di Sky-angelo risolutore, ha almeno l’utilità di chiudere il film con le stesse atmosfere smorzate che ne caratterizzano la prima parte, lasciando Earl e Sky alle prese con un nuovo viaggio, del quale lo spettatore, dopo le controverse vicende cittadine, sente sinceramente il bisogno. |