Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Ingmar Bergman Elegia per Ingmar Bergman

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a cura di Glauco Almonte
Nella sua isola, lontano da ogni contatto umano, se n’è andato il più grande comunicatore, forse il più grande regista, della storia del cinema.
Svedese, prossimo ai novant’anni, la sua biografia scompare di fronte alla filmografia.
Di Ingmar Bergman parlo a titolo personale, ma nel merito generale del discorso sono sicuro che tutta la redazione di Cinemadelsilenzio.it la pensi allo stesso modo: pochi autori ci hanno così pienamente convinto, senza riserva alcuna al di là di fatue discussioni tra un 9.5 o un 10. Con lui siamo nati cinematograficamente, con lui siamo nati come rivista (il Primo Piano in occasione del Premio Fellini è stato il primo lavoro collettivo dedicato ad un regista).
Ho amato ciò che quest’uomo schivo, ritroso, antipatico, è riuscito a comunicarmi attraverso la sua arte: dalla notizia della sua morte non ho visto nessun film, ma ogni volta che in questi anni mi è capitato di vederne o rivederne qualcuno ho sentito di amarlo come la prima volta. Una prima volta indimenticabile, dato che il primo contatto è stato con “Il Settimo Sigillo”: non ricordo più quando sia stato, ma è intatta, sembra anzi ancora affiorare, la sensazione di allora. “Il Settimo Sigillo” è stato, nel cinema, il primo (e finora insuperato) contatto con l’assoluto. Un assoluto tanto della forma quanto, se non di più, del significato: la distruzione dell’uomo e il suo assurdo gioco tra indifferenza, speranza, illusione, delusione e salvezza, il senso del destino spiegato linearmente, un finale da chiudere gli occhi e non riaprirli mai più tanta è la sua bellezza, la miglior fotografia mai vista e una battuta indelebile: “il sole compie ancora il suo alto arco nel cielo e io, io Antonius Block, gioco a scacchi con la morte”. Come conclude la recensione, un’opera immensa.
L’altro punto di partenza nel mio rapporto di devozione nei riguardi di Bergman è la visione di “Persona”, seguita il giorno dopo da quella di “Sussurri e grida”. “Persona” non è più la creazione perfetta di un genio, ma un semplice film che si regge su un’interpretazione inverosimilmente straordinaria di Liv Ullmann e Bibi Andersson, e su un’angoscia che attanaglia lo spettatore dal primo all’ultimo secondo; “Persona” è il quadro sofferente di un rapporto la cui sola comunicazione basta per stravolgere nel più recondito punto dell’animo le due protagoniste, una magistrale lectio sui ruoli, sulla recitazione e sulla menzogna (meglio che ne “Il volto”, di qualche anno anteriore). E’ psicologia allo stato puro, è metacinema schiaffato in faccia allo spettatore, è la scelta interpretativa che il maestro lascia durante tutto il film e non indirizza nemmeno nel finale.
Sussurri e grida” è come rivedere “Persona”, Bergman raddoppia senza perdere nulla, le attrici sono quattro (la Ullmann bissa il film precedente; di Harriet Andersson ho ancora scolpita dentro l’intensità del suo sguardo in macchina in “Monica e il desiderio”, per il resto un film piatto) e ci si chiede come diavolo facciano ad essere cosi brave, quale miracolo abbia portato un uomo quale Bergman a rappresentare la donna nella sua forma più intima, più nuda. “Sussurri e grida” non ha il fascino perverso di “Persona”, ma nei suoi colori – un rosso che fa sanguinare soltanto a guardarlo –, nei suoi dialoghi ha a tratti la forza del “Settimo Sigillo”. A tratti è odio allo stato puro, quanto amore si può riscontrare in “Scene da un matrimonio”; il regista svedese non rappresenta se stesso, né una sua visione del mondo: è ogni aspetto dell’animo umano ad essere mostrato, se qualcosa alla Morte – comunque vincitrice – sfugge (la tattica di Block, la fuga dei saltinbanchi), nell’analisi bergmaniana non avviene.
La parte centrale della carriera di Bergman è segnata dalla ‘trilogia del silenzio’, sull’assenza di Dio. “Come in uno specchio”, “Luci d’inverno” e “Il silenzio”: non è necessario vederli nell’ordine, è necessario vederli. Il bisogno di avvertire la presenza di Dio, tema già centrale nel “Settimo Sigillo”, si rivela la condizione naturale dell’uomo, una condizione di sofferenza che aumenta con i dubbi, con i silenzi ricevuti in risposta ad ogni invocazione. Il malessere fisico dei personaggi che si scoprono senza fede è pari al malessere dello spettatore, capace di provare questa mancanza improvvisa, questa vertigine specchiandosi nel vuoto dove fino a un attimo prima credeva esserci l’anima. Comunione e comunicazione in “Luci d’inverno”: il pastore viene meno al suo compito, ma è preceduto da Dio; nessuno è in grado di ascoltare, di capire, di aiutare. E’ l’umanità sopravvissuta al giudizio universale, che si interroga quanto all’assenza di un Dio percepito soltanto come distruzione. Anche nella ribellione il pastore ha un precedente illustre, Gesù: scagliarsi contro un Padre che ci ha abbandonato è l’unico gesto che ancora può aspirare ad un significato, ma la risposta più probabile, invece di un ritorno alla fede, sembra essere la coscienza del nulla. Nuvole e nebbia, nel cielo nordico di “Luci d’inverno”: i volti illuminati da un fotografo (sempre Sven Nykvist, come in “Sussurri e grida” e in larghissima parte della produzione bergmaniana) più bravo di Dio – che lascia al buio le sue pecore – mantengono una speranza di spiritualità che il simulacro divino non meriterebbe. La conclusione della trilogia, non solo dei tre film, non è univoca: lo è l’incompiutezza della ricerca umana, dell’uomo stesso che attraverso questa ricerca tende a se stesso, alla propria natura, senza riuscirvi mai. La conclusione è l’anima, senza che essa risulti un’affermazione o una negazione.
Se lo spettatore riesce a seguire il volo ultraterreno di Bergman nella sua trilogia, l’impatto col terreno è sconvolgente: il suo ultimo capolavoro, in ordine di tempo, è “Fanny e Alexander”. Adesso che Bergman è morto il film è compiuto, la storia che ha voluto raccontare ha un finale. Adesso che un senso lo ha trovato, anch’io, guardandolo di nuovo, spero di riuscire a cogliere quel che fino ad oggi non sono stato in grado, la distruzione di ogni maschera umana di un uomo che si mostra come nessuno prima attraverso una rappresentazione teatrale, rivelare se stessi nascondendosi dietro alla scansione del tempo ed alla finzione di una maschera. In Bergman è sempre il volto nascosto la vera maschera, con “Fanny e Alexander” azzarda a toglierla ed a mostrarci quest’ultima, ineliminabile maschera. Il tutto accompagnato da una magia vera, quella di un vecchio che si guarda indietro e invece di soffermarsi riesce a costruire.
Adesso Ingmar Bergman è morto per davvero, e per me che non l’ho mai conosciuto (come quasi tutti, d’altro canto) è facile immaginare che i suoi ultimi anni, o mesi, o giorni, siano stati sulla falsariga de “Il posto delle fragole”; è un bilancio di una serenità agghiacciante, tracciato da un vecchio scontroso, egoista, di fronte a quello che sembra il primo esame di coscienza da molti anni. La storia di una solitudine terribile, raccontata da un Bergman ancora giovane, mai così vicino alla propria morte. Oltre ad essere Cinema, “Il posto delle fragole” è un’elegia di ottimismo e positività d’animo. Un elegia che oggi canto per l’uomo Bergman, sconosciuto, fotocopia dell’idea del mondo che lui stesso mi ha saputo offrire.
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