Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Stanley Kubrick Più che una biografia, un'Odissea

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a cura di Glauco Almonte
Stanley Kubrick muore il 7 di marzo del 1999. Un infarto lo porta via a settant’anni, meno di due anni prima del 2001 che nel ’68 immaginò in maniera tanto folgorante. Non voleva essere una previsione, ma l’affermazione che un futuro fantascientifico poteva concretizzarsi in qualsiasi momento, che l’uomo era pronto per trovare la risposta alla sua più grande domanda. Era la fine degli anni ’60, non un momento qualsiasi, quando Kubrick prende l’uomo e lo lancia nell’Universo, per un viaggio che nel cercare di spiegare un significato apparentemente profondo ne rivela l’assoluta mancanza di senso.
2001 – Odissea nello spazio” è una pietra miliare della storia del cinema, non soltanto per i 10 milioni spesi (6,5 per gli effetti speciali), e nonostante la tiepida risposta dell’Academy (quattro nomination e un solo Oscar tecnico); il suo viaggio nel cinema non è nemmeno a metà, e si parlerà soltanto di capolavori.
Per quasi vent’anni, Stanley Kubrick non si interessa di cinema: lavora come giornalista, come fotografo, è un eccellente scacchista (chi ha visto “Orizzonti di gloria” non può dirsi stupito di questa passione). Nel 1947 inizia a passare il suo tempo libero al Moma, a vedere un film dietro l’altro: è come se l’osso lanciato per aria non ricadesse più, la sua ignoranza si trasformerà tanto rapidamente da farlo additare, pochi decenni dopo, quale maestro di cinema e, soprattutto presso i giovani, quale miglior regista di sempre. Inutile fare classifiche, ma un aspetto singolare della sua carriera è innegabile: ha cercato costantemente nuove forme, con risultati altissimi. Forse non primeggerà in alcuna delle suddette classifiche per genere, ma è presente in tutte e ai primi posti: fantascienza, horror, guerra, gangster, noir, film in costume, storici, satirici, Kubrick fa ogni cosa una volta. Poi cambia, e riesce a fare ancora meglio.
La sua odissea nel cinema inizia negli anni ’50, con i primi lungometraggi – “Paura e desiderio” e “Il bacio dell’assassino” – e le prime esperienze totalizzanti: Kubrick pensa il film, lo scrive, lo dirige, lo monta, e già che c’è fonda anche una società per produrlo. Il primo film che ha la sua etichetta è “Rapina a mano armata”, al tempo non un grande successo commerciale ma accolto favorevolmente dalla critica, che nel giro di pochi anni inizierà a considerarlo un piccolo gioiello nel suo genere (è intriso di richiami hustoniani) grazie a una narrazione che si articola attraverso svariati punti di vista fino a comporre un mosaico semplice eppure estremamente accattivante.
Fino a questo momento Kubrick è una sorta di autodidatta: è lui ad usare la camera a mano, è lui a scegliere gli attori (questione di fiducia), è lui ad occuparsi dell’unica fase artistica, il montaggio. “Orizzonti di gloria” si avvale del finanziamento di Kirk Douglas, e si può considerare l’ultimo film della prima fase della carriera kubrickiana, la fase dell’apprendistato; ma è giunto il momento di cimentarsi con qualcosa di più grande, per ritornare all’autarchia forte di un’esperienza maggiore: Douglas toglie “Spartacus” dalle mani di Anthony Mann e lo affida a quelle di Kubrick, per un colossal che otterrà 4 Oscar (me nessuno importante). Kubrick non è entusiasta di lavorare sotto il controllo di un produttore che non gli lascia carta bianca, ma non deve essere un caso se, dopo quella che alcuni considerano una “marchetta”, si aprirà la seconda, più importante fase della sua carriera, quella dei capolavori.
Lolita” e “Il Dottor Stranamore” sono ancora una via di mezzo: sarà in parte effetto del bianco e nero, ma visivamente risultano oggi datati, e nonostante all’epoca “Il Dottor Stranamore” sia stato celebrato quale splendida satira sull’uomo e sulla sua tendenza all’autodistruzione e abbia ricevuto 3 nomination, sono pochi gli estimatori tra le generazioni più recenti. La stessa cosa non si può dire superata la metà degli anni ’60: “2001” e “Arancia Meccanica”, tanto per cominciare. Se “2001” è il film il cui significato è meno immediato, “Arancia Meccanica” è quello di fronte al quale lo spettatore rimane maggiormente a disagio, combattuto tra l’ammirazione per ciò che vede (e per come viene mostrato) e il suo senso di colpa per non riuscire a condannare Alex e il suo mondo. E’ senza dubbio l’opera più cattiva di Kubrick, che rifila allo spettatore lo stesso trattamento che viene riservato ad Alex sulla pellicola, gli propina sequenze scioccanti in una maniera celestiale, unendo la sua arte, ormai ai massimi livelli, alla musica di Beethoven. Il buon vecchio Ludovico Van. E’ un’opera alla quale non si può rimanere indifferenti, accolta alla sua uscita da roventi polemiche che indussero Kubrick a farla ritirare dalle sale inglesi, nonostante i grandi incassi che stava avendo. Anche stavolta le nomination sono solo quattro, ma sono le più pesanti: film, regia, sceneggiatura e montaggio.
E’ destino che l’Academy non debba premiarlo, e la cosa si ripeterà puntualmente qualche anno dopo con “Barry Lyndon” e le sue sette nomination, superato in ogni categoria da “Qualcuno volò sul nido del cuculo” di Miloš Forman. Protagonista del film di Forman è Jack Nicholson, l’attore che meno di cinque anni prima doveva girare con Kubrick “Napoleone”, progetto poi tramontato; come per chiudere il cerchio, Kubrick vuole Nicholson per l’ennesimo salto di registro, stavolta nell’horror. Quella di Nicholson in “Shining” è una delle interpretazioni più memorabili che la storia del cinema ricordi, e fa impallidire la prova di Malcom Mcdowell in “Arancia Meccanica”; la differenza è che il primo non riuscirà a ripetersi, troppo legato a quel ruolo, mentre Nicholson è avviato a diventare uno degli attori immortali. Il pubblico adora “Shining”, e come per contrappasso la critica fatica a capirlo, ma l’impatto della struttura di alcune scene (il labirinto sia dall’esterno che dall’interno, i corridoi, la Red Rum, il sangue) ne accrescono, col tempo, il fascino.
Negli ultimi vent’anni della sua vita Kubrick riesce a portare a termine due soli film, e il secondo nemmeno del tutto (sarà Steven Spielberg a completarne il montaggio della colonna sonora). “Full Metal Jacket” è un film sulla guerra diviso in due parti estremamente diverse, ma che si compongono in un’altra denuncia, l’ennesima, dell’ipocrisia umana. Gli anni ’90 sono quelli dei contatti con Spielberg: rinuncia a girare “Aryan Papers” quando viene a sapere di “Schindler’s List”, quindi prova a produrre “A.I.”, ma il progetto viene rimandato; l’ultima fatica è la trasposizione di “Doppio Sogno” di Arthur Schnitzler, il risultato è “Eyes Wide Shut” con la coppia (poi scoppiata) Tom CruiseNicole Kidman. Un film ambiguo, perso nella propria sfera onirica, che chi sostiene di aver capito afferma di amare. Una degna non-conclusione di una carriera inimitabile.
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